Il protagonista di questa storia si portava dietro fin da bambino una pessima abitudine, quella di mangiarsi le parole.
Si mangiava anche le unghie e le pellicine delle dita, ma queste non rappresentavano un problema, dato che si trattava di quantità molto esigue. Fastidioso guardarlo mentre lo faceva, questo sì, ma nessun altro effetto collaterale.
Ma le parole… Oh, quelle sì, che erano un bell’intoppo!
Prima di tutto, ne produceva tante. Era un affabulatore nato, anche perché amava le parole, ne andava ghiotto. E così ne iniziava tante ma le inghiottiva prima di finirle, sicché nessuno capiva mai cosa volesse dire.
Il fatto è che proprio non resisteva: era goloso di parole.
A volte parlava solo per il gusto di trangugiare preposizioni, sostantivi, complementi oggetto, e via così.
Crescendo si era fatto via via più raffinato. Non mangiava parole qualsiasi, no, le sceglieva sul dizionario e le amava strane, esotiche, affascinanti.
Spesso le condiva con svariati sinonimi.
Un’altra difficoltà che la sua insaziabile voracità comportava, era che non andava più nemmeno tanto per il sottile per quanto riguardava il senso di ciò che diceva. Intendiamoci, una frase ben congegnata e grammaticalmente a posto, con tutti i crismi, aveva un sapore molto più piacevole per lui di una accozzaglia di parole mal assortite. Non era questione di grammatica o sintassi, quanto di senso. Ormai non parlava più per dire qualcosa che avesse un significato per un qualsiasi interlocutore, gli bastava che la frase fosse ben assortita, elegante, piacevole. Tanto aveva intenzione di mangiarsela, mica di regalarla ad altri.
Oddio, qualche cosa doveva pur dire, vivendo in società. Di solito elargiva monosillabi incolori o frasi di dubbio gusto. “Sì”, “no”, “magari”, oppure “biglietto, grazie!”, “Scendo qui”, e così via.
I saluti, però, gli piacevano troppo, per cui non resisteva all’impulso di addentarli almeno un po’.
Perciò “Buongiorno” diventava “’ngiorno”, o perfino “’rno”.
La sua vita si complicava sempre più, a causa di quello che era diventato un vero e proprio vizio. Non riusciva più a stare in mezzo alla gente e nemmeno a lavorare. La dose di parole che sentiva di dover ingoiare era sempre maggiore, non gli bastava mai.
Un giorno che si prese una brutta laringite, pensò d’impazzire per l’astinenza da parole. Si ridusse a riempirsi lo stomaco di pagine di quotidiani o di libri, pallido surrogato delle deliziose parole pronunciate.
I familiari erano preoccupati. Ogni tentativo di aiutarlo era da lui mal interpretato e accennava persino a diventare violento se si andava sull’argomento della sua salute.
“’fari ‘iei”, urlava, intendendo che erano affari suoi, ma smozzicando i termini.
La situazione precipitò quando, una brutta notte, lo trovarono riverso in un parco, quasi moribondo.
In ospedale non sapevano che fare, cosa diagnosticare, che malattia inventare per spiegare le sue gravissime condizioni.
Era destinato a morte certa se uno degli infermieri non avesse avuto una brillante intuizione.
Fece chiamare l’anziana maestra che l’aveva avuto come allievo e lei trovò subito il bandolo della matassa.
“Forse è colpa mia se il ragazzo ha sempre amato le parole – spiegò con rammarico – Gliele ho insegnate troppo bene, ahimè. E ora, guardatelo: ha fatto indigestione!”.
Trovato l’inghippo, risolto il problema. Gli fecero vomitare fuori a forza tutte le parole che aveva ingurgitato senza avere il tempo di digerirle.
Sputò fuori parole per ore e ore, ad una velocità fuori dal comune, senza alcun senso, ma con fare teatrale, sentito, tanto che, ascoltandone la melodia senza soffermarsi sui concetti, sembrava quasi che avessero un significato logico.
E qui la buona sorte decise di intervenire in suo favore.
Nella camera accanto a quella in cui era sottoposto al rigurgito di parole, era ricoverato un famoso uomo politico, che rimase impressionato da tutta quella esternazione, così lunga, interminabile, priva di costrutto eppure affascinante.
“Il giovanotto è un portento – sentenziò con voce decisa – Ne faremo un politico di razza!”.
E così, il ragazzo sfortunato, spiantato, cui la dedizione al vizio sembrava aver rubato il futuro, si ritrovò sui banchi del parlamento. La drammatica esperienza gli aveva insegnato a tenere sotto controllo la propria ingordigia, si limitava a mangiare qualche barzelletta tra amici, irritandoli un po’ perché raccontava loro solo i finali delle storielle. Ma questo vizietto era per lo più tollerato con una certa benevolenza.
La maggior parte del tempo, sciorinava la propria eloquenza, frutto di anni d’apprendistato in qualità di gourmet di parole, sui banchi dell’emiciclo, ai comizi e alle tribune politiche. Nessuno capiva cosa dicesse, naturalmente, ma tutti applaudivano fino a spellarsi le mani per la raffinata oratoria, per la scelta dei vocaboli e per la ridondante magniloquenza.
Aveva finalmente trovato il proprio posto in società, tra suoi simili, erede di una tradizione secolare.
Giuliana (giovedì, 04 agosto 2011 14:01)
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