Raccontano che negli anni ’50 una comitiva di legnanesi, in gita turistica a Roma, abbia deciso di pranzare in un’osteria di un quartiere popolare. I succulenti piatti romani furono allietati da un raro vino che un gitante aveva notato, fra tanti altri, su un asse vicino al tavolo da pranzo: era il “vino dei colli di S. Erasmo”. Se questa bottiglia sia stata gradita al pari dei grevi piatti serviti, non viene riportato dalle cronache. Di sicuro è stata una delle ultime bottiglie di quel vino, raro più dello Sciacchetrà, ma sicuramente meno gustoso. E’ davvero curioso che la storia del “vino dei colli di S. Erasmo” inizi e finisca con quella di un ospedale. Ma, tanto per iniziare, partiamo dalla fine. Verso gli anni ’70, per ampliare il parcheggio di quello che ora sta diventando un ex-ospedale, furono spianati parte dei “colli” in cui si coltivavano gli ultimi vitigni di quel famoso vino. Restarono solo alcune piante sparse negli orti della zona: troppo poche perché qualcuno potesse ricavarne qualche bottiglia.
Intorno all’anno mille, sorgeva presso l’attuale ospedale di Legnano un ospizio, quello di S. Erasmo, che esiste tuttora; anche se ampiamente rifatto e ricostruito, è attualmente adibito a lungodegenza. Diversi decenni fa fu abbattuto per ampliare la strada del Sempione: fu così che alcuni interessanti affreschi andarono perduti; solo in parte sono stati strappati e conservati. La ricostruzione che ne seguì cercò di rispecchiare la struttura e lo stile originario, con l’inevitabile adeguamento alle mutate necessità del complesso. Nel ‘200 Bonvesin de la Riva, grammatico e terziario degli Umiliati, pare abbia ampliato una costruzione già esistente, punto di sosta e ristoro per i viandanti, che da Milano, lungo la statale già nota ai romani, si dirigevano verso nord o, cosa più frequente, erano in viaggio per Roma.
Fu così convertito ad “ospedale” in senso etimologico, dando rifugio e vitto, non solo a chi sostava per una notte, ma anche a quelli che non potevano mantenersi con i propri mezzi.
Col tempo incominciarono a essere ricoverati anche ammalati, nutriti, rifocillati e curati coi pochi mezzi allora disponibili. L’assistenza era affidata a frati e laici e i mezzi di sostentamento provenivano dalle ampie tenute che circondavano il primitivo ospizio.
Erano coltivati i cereali e la vite, proprio sui colli vicini. Pare sia nato allora “il vino dei colli di S. Erasmo”.
Quel vitigno si diffuse negli orti della zona, acquisendo fama.
Anche mio nonno Raffaele (chiamato familiarmente Pa’ Favél) ne venne in possesso sul finire dell’800. Andò a completare il suo orto in cui l’uva bianca e rossa già si erano sviluppate, ampliando l’offerta della frutta da tavola.
In quell’orto Pa’ Favél coltivava tutto quello che poteva servire in cucina, ovvero la frutta e la verdura che oggi siamo costretti a cercare sui banchi dei supermercati.
Quella dei colli di S.Erasmo era un’uva che, tutt’al più, era accettabile a tavola, molto meno appetibile che quella bianca e rossa.
Ma mio nonno era talmente entusiasta dell’imprevisto sviluppo del suo vitigno, da trasformarla in uva da vino, sulla scia di quanto molti altri facevano da tempo nella zona, nel ricordo dei fasti del passato.
La fama, forse poco meritata di quel vino, aveva da secoli varcato gli angusti confini dell’altomilanese: solo i vini di altri ronchi (quelli della rocca d’Angera) e quelli dei colli di S. Colombano potevano, a ragione, oscurarne la nomea.
Pa’ Favél ha sempre avuto una cura particolare, quasi maniacale, per quel vitigno, che, sul lato sinistro del suo orto, si era ampiamente sviluppato, a ridosso di un muro divisorio, trovando la giusta acclimatazione. Allungandosi su supporti metallici, i tralci, avevano formato un pergolato che forniva, oltretutto, un’adeguata ombreggiatura alle culture dell’orto, poco amanti il pieno sole. Mi ripeteva spesso che la coltivazione della vite richiedeva particolari cure.
“La vite -sosteneva- vuole il terreno pulito intorno, senza erbacce o sassi”.
Appena entrava nel suo orto, dava subito un’occhiata ai piedi dei vitigni e asportava anche il più piccolo detrito.
La potatura, sempre secondo lui, era un’arte da lasciare ad un esperto (quale si riteneva) e tutte le operazioni che riguardavano le viti, fino alla vendemmia, dovevano seguire rigorose regole dettate dalle fasi lunari.
Se qualcosa non procedeva come aveva preventivato, era sempre colpa di qualche lavoro non effettuato secondo “la luna giusta”, come spesso affermava. I ritmi lunari e, in subordine, quelli solari, hanno regolarmente cadenzato i suoi lavori agricoli: ho sempre pensato che fosse un retaggio tramandato dagli assiro-babilonesi e filtrato attraverso varie culture fino ai nostri tempi.
Anni dopo avrei sperimentato, a mie spese, la veridicità di quanto sosteneva mio nonno, tentando, in tempi sbagliati, alcune culture nel mio orticello.
Ma c’erano altri nemici della vite: debellata la fillossera, che aveva devastato interi vigneti, il nonno doveva fare i conti coi merli e i passeri che apprezzavano i dolci acini.
Pa’ Favél avrebbe dovuto però confrontarsi anche con “nemici” insospettabili.
Li scoprì mio padre una sera, notando uno strano movimento che, risalendo lungo i tralci, continuava fin verso i rami adagiati sul supporto di metallo: erano i topi, i minuscoli animali che abbandonata la legnaia, andavano a completare la cena, ovviamente, con la frutta. Ne parlò con Pa’ Favél che, sorpreso per l’inattesa scoperta, concordò con mio padre un sistema, al tempo stesso, d’allarme e di difesa. Solo allora il nonno comprese gli scadenti risultati di qualche vendemmia, di cui non potevano essere incolpati solo il tempo sfavorevole e gli uccelli. Mio padre, collegando un filo elettrico, in cui correva una bassa tensione, coi supporti in metallo, realizzò uno dei tanti sistemi d’allarme che avrebbe poi perfezionato anche per le sue abitazioni.
Una sera avvenne il collaudo, alla presenza di tutto il parentado, curioso di valutare l’impatto di quel sistema, ma al tempo stesso dubbioso sulla riuscita. Quando mio padre abbassò l’interruttore che dava corrente, anche i più scettici dovettero ricredersi, perché uno squittio intenso e prolungato, confermava che i poveri topini erano proprio…alla frutta.
Abbassando tutte le sere l’interruttore, mio padre, col suo primitivo, ma efficace sistema di difesa, permise al nonno di ottenere grappoli d’uva di eccellente qualità.
Ottobre, che per me significava l’inizio della scuola, per Pa’ Favél voleva dire vendemmia, ovvero il momento di verificare la ”bontà ” (si fa per dire) della sua uva.
Era un rito che si ripeteva, quasi immutabile, da anni ed ebbi modo di viverlo in diverse occasioni. Mio nonno, dopo aver valutato la corretta maturazione dei grappoli, per primo iniziava la raccolta, riponendoli con cura in un apposito cestino. Anche la nonna, i figli e i nipoti più grandi partecipavano alla vendemmia, quand’erano liberi da impegni di lavoro, sotto lo sguardo vigile e severo di Pa’ Favél, pronto a rimbrottare chi non trattava i grappoli e i rami con la dovuta delicatezza.
Nel cortile, antistante l’orto e il giardino, pavimentato con ciottoli di fiume, veniva posto, adagiato su un supporto di legno, un tino, che mi sembrava di grandi dimensioni, perché la mia statura (di bambino) arrivava alla metà del recipiente.
Un basso mastello in legno era sistemato sotto il rubinetto (sempre in legno) da cui sarebbe uscito il mosto.
Quando tutti avevano versato nel tino i grappoli raccolti, il nonno, dopo essersi accuratamente lavato i piedi, saliva con l’aiuto di una scala all’interno del recipiente e incominciava la pigiatura.
Mi è rimasta impressa quell’immagine di Pa’ Favél, che, dopo essersi tolta la camicia, restando con una maglia di lana a mezze maniche, chiusa da tre bottoni sul davanti, coi pantaloni scuri (ripiegati fin sotto il ginocchio) sorretti da vistose bretelle nere, iniziava la “danza” della vendemmia.
Proprio di danza si trattava, perché mio cugino (un tipo piuttosto burlone) portava nel cortile un grammofono, munito di un enorme trombone e inseriva uno dopo l’altro i dischi a settantotto giri, con le canzoni del tempo. Mio nonno, piuttosto robusto, con uno sguardo severo, un naso dantesco e la pancia quasi alla zuava, trattenuta a fatica dai pantaloni con bretellone, era quanto di più improbabile come ballerino. I suoi movimenti non riuscivano a seguire il ritmo della musica, ma il nonno si sforzava di essere elegante, riuscendo solo ad agitarsi in modo disarmonico e scoordinato: l’unica cosa che ballava a ritmo era la sua pancetta. Questa immagine poteva solo suscitare l’ilarità di chi stava intorno e lo applaudiva a ritmo di musica. Lui, sentendosi nel ruolo del capofamiglia che sta compiendo qualcosa di assolutamente importante, si sentiva incentivato ad aumentare il ritmo della pigiatura, peggiorando la sua già scarsa coordinazione. Appena il figlio maggiore, aprendo il rubinetto, segnalava a Pa’ Favél, il primo frutto della sua pigiatura, la danza si interrompeva e il nonno si affrettava ad assaggiare il mosto.
“Proprio buono, meglio dell’anno passato”- era il commento di Pa’ Favél a ogni vendemmia, dopo averlo assaporato. Gli altri, a turno, prendevano il suo posto a pigiare i grappoli, finché restava solo una poltiglia, che non aveva più nulla da offrire. Si immedesimava a tal punto nel ruolo di produttore di vino, da seguire le rigorose norme trasmesse dai suoi antenati. Il vino doveva fermentare per due-tre settimane, poi doveva sostare per sei mesi in una botticella di rovere e, successivamente, per un anno circa in un’altra botte, sempre di rovere, ma di diversa origine. Ottenute alla fine una dozzina di bottiglie di vino, le riponeva inclinate, secondo i sacri crismi, in una cantina ad umidità e temperatura controllata e costante.
La limitata produzione del suo “vigneto” era ovviamente riservata ad occasioni particolari, come compleanni, feste comandate o serate con amici, che, al pari di mio nonno, riuscivano anche a cogliere differenze con l’annata precedente e addirittura, a intravedere nel bicchiere riflessi granata e, nel retrogusto, percepire sentori di violetta…
Ora che i miei nonni sono mancati il vitigno è stato trapiantato nel giardino di mio cugino, che si guarda bene dal ricavarne un vino, distribuendo i grappoli, più semplicemente, come uva da tavola al numeroso parentado.
Oltre che discreto bevitore (e scarso intenditore) il nonno era anche un buon fumatore di toscani e, soprattutto, di pipa. Durante l’ultima guerra era difficile trovare il tabacco e le sigarette: in certi momenti, addirittura, sparivano dal mercato.
Mio nonno mi raccontava che oltretutto quanto riusciva a trovare era di qualità scadente e un tabacco decente era reperibile solo alla “borsa nera” a prezzi d’amatore. Fu così che Pa’ Favél, al pari di tanti altri fumatori, si industriò.
Se era difficile trovare le sementi, lo spazio per coltivare il tabacco, non mancava certo nel suo ampio orto. C’era solo un problema: la legge ne vietava la coltivazione, in quanto lo Stato possedeva il monopolio. Come altri suoi amici, incalliti fumatori, incominciò a far crescere le piante mimetizzandole fra altre coltivazioni. I fagiolini rampicanti, che riuscivano a raggiungere anche diversi metri, se opportunamente sorretti da tutori, si prestavano all’occasione.
Questa abitudine a coltivare abusivamente il tabacco continuò anche nel dopoguerra: se non era facile trovare prodotti di prima necessità, risultava spesso impossibile reperire quelli voluttuari. E quando si trovavano, avevano costi proibitivi. Pa’ Favél ricordava con nostalgia la qualità del tabacco che gli americani, alla fine della guerra, avevano distribuito gratuitamente alla popolazione.
Fu così che mi capitò, con mia grande sorpresa, di vedere, ben nascosti fra due alti filari di fagiolini, le piante di tabacco dalle foglie molto grandi. Pensando a una qualità particolare, coi frutti proporzionati alle dimensioni delle foglie, rimasi sorpreso quando seppi che erano piante che non ne producevano, volendo si potevano ricavare solo…lunghi sigari, dopo opportune lavorazioni.
Un pomeriggio, mentre ero in casa con nonna Fiora, bussò un militare (che si sarebbe poi presentato come un finanziere) chiedendo di poter “dare un’occhiata al giardino”.
La sorpresa di mia nonna fu enorme, ma per fortuna rientrò dall’orto Pa’ Favél che, con incredibile sangue freddo, si offrì di mostrare al militare quanto veniva coltivato.
Li seguii anch’io incuriosito e, fra i due alti filari di fagiolini, notai che le piante di tabacco erano state strappate, come si poteva notare dal terreno smosso.
Il finanziere dopo aver osservato accuratamente tutto l’orto, compilò un verbale, lo fece firmare al nonno e se ne andò.
“Mi sembrava di sentirlo - commentò Pa’ Favél, rivolto alla nonna-i finanzieri sono appena stati dai vicini e ho fatto in tempo a strappare le piante e sistemare le foglie di tabacco nel portico”.
Mi condusse nel locale in cui, in una speciale cassettiera, aveva nascosto numerose foglie di tabacco che esponeva all’aria in un altro punto del giardino, lontano da sguardi indiscreti, e che aveva ritirato proprio il giorno prima perché minacciava pioggia.
Quando il grado di essiccazione era ottimale, il nonno le tranciava in fette sottilissime, utilizzando uno strumento a lame multiple che mio padre aveva ideato e costruito, fissandolo con alcune viti su un tavolo di legno.
Era finalmente disponibile il tanto desiderato tabacco, che aveva un profumo particolare perché era stato coltivato, prodotto e, soprattutto, sottratto al sequestro della finanza.
Non ho mai visto mio nonno tanto felice come nel momento in cui fumava la pipa col tabacco di sua produzione, mentre centellinava il suo amato vino, meglio se in compagnia di amici.
D’accordo Bacco e tabacco, ma…Venere?
Ho buoni motivi per pensare che Pa’ Favél abbia amato e, soprattutto, rispettato mia nonna e le sue uniche uscite erano per recarsi al mercato o al Circolone, per qualche partita a bocce o a carte.
Lo stesso sentimento ha sempre mostrato per i suoi figli e, in modo particolare per i numerosi nipoti, anche se il suo viso severo e il tono burbero, non sempre riuscivano a trasmettere agli altri quello che veramente provava.
leonilde (venerdì, 30 settembre 2011 23:11)
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LUISELLA (venerdì, 30 settembre 2011 23:09)
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fermo (venerdì, 30 settembre 2011 23:06)
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mi piace( troppo)
diet...str. (venerdì, 30 settembre 2011 15:54)
mi piace( ora devo limitarmi)
monica (venerdì, 30 settembre 2011 15:52)
mi piace( ma non posso, sono in clausura)
fra. gol. (venerdì, 30 settembre 2011 15:49)
mi piace( la frutta)
bul. m. (venerdì, 30 settembre 2011 15:47)
mi piace troppo( mangiare, manderei in fallimento un ristorante)
anor. s. (venerdì, 30 settembre 2011 15:44)
mi piace( ma non riesco a digerire)